Storia di Francesco

Premessa: le notizie che mi sforzerò di testimoniare spero che servano ad arricchire un campo di indagine conosciuto troppo in superficie: come effetto e non come causa, dove mi sembra che ci sia ancora molto da scoprire, soprattutto per definire una possibile terapia preventiva da poter adottare.

Il mio nome è Franco, sono nato in una zona del Sud Italia nel lontano 1952, ma prima di me voglio parlarVi di mio padre, nato e cresciuto nella stessa zona di quella terra senza misteri che è stata in grado di confezionare misteri come me, come altri, come pochi. A mio padre do un nome di fantasia, ma faccio un resoconto di una vita vera. Lo chiamerò Primo, anche se è stato sesto figlio vivente di una famiglia di otto figli. Non conservo molte notizie di mio nonno, se non per dire che è stato l’unico della sua famiglia a non imbarcarsi per l’America per una serie di circostanze casuali verificatesi alla fine del Novecento. Infatti lui nacque nel 1875 in una famiglia di contadini molto povera ed al servizio di latifondisti, tra conti e marchesi in voga a quei tempi; Ben presto la sua famiglia si sparpagliò in giro per le Americhe, da dove nessuno è più ritornato, nemmeno in tempi recenti. Lui, mio nonno era conosciuto per essere un uomo di sana e robusta costituzione, ma anche di buon senso, poiché trattava i vicini dei suoi tempi con riguardo e solo in casi di estrema necessità, aggrediva con molta determinazione e lasciava il segno. Ma questo non conta molto ai nostri fini, se non per misurare il grado di umanità che accompagnava le sue vicende esistenziali e come riusciva ad affrontare le difficoltà quotidiane. Era un timorato di Dio e viveva con orgoglio ogni attimo della sua vita interpretando i valori della famiglia come una necessità di onorare il proprio nome attraverso la sua rettitudine e quella dei suoi discendenti, questo almeno nella costruzione di un’immagine esterna: in famiglia screzi e scontri di interesse non mancavano come in qualsiasi altra realtà.

La figura di Primo era soggetta ad un riguardo particolare, per le sue condizioni fisiche: una figura che durante lo sviluppo presenta tutte le asimmetrie di un corpo brutto, disagiato, non in grado di sviluppare tutte le attitudini che si potevano osservare negli altri giovani della famiglia e del vicinato. Insomma, rappresentava una “croce di Dio”, come la chiamavano allora, dura da sopportare, ma Primo era senza colpe, faceva tenerezza e conquistava l’affetto dei suoi genitori più di qualsiasi altro. Cresceva e si sviluppava: le sue esostosi condizionavano lo sviluppo delle braccia con serie difficoltà motorie, che partivano dalle spalle fino all’uso delle dita delle mani; le gambe si sviluppavano in modo disarticolato, con grosse esostosi nella zona inquinale alle articolazioni tibiali e femorali, con una differenza di lunghezza tra una gamba e l’altra tra i 15 – 20 centimetri. Non c’è che dire, si trattava di un’opera della natura molto interessante, ma il consiglio dei medici a cui si tentò di sottoporre il caso fu sempre quello di non intervenire, di tenersi il figlio così com’era perché la medicina non era tale da saper dare una spiegazione o prospettare una soluzione che non potesse essere peggiore del male stesso. Il timore stava nel fatto che un qualsiasi intervento potesse provocare un corto circuito letale. Dimenticavo di dire che Primo ha avuto i natali nel lontano in quel di febbraio 1919; nei venti anni del suo sviluppo c’era soprattutto la guerra a cui pensare, la fame incombente, i ricoveri di fortuna sotto le bombe amiche e nemiche che, al contatto con la terra facevano lo stesso effetto: seminavano la morte! Come sempre. Primo racconta delle notti insonni trascorse al chiaro di luna, attenti a qualsiasi rumore sospetto, dal cielo, dal mare, dai ponti della ferrovia poco distanti, del rapporto di amicizia stretto con i soldati di stanza su quel territorio, ma soprattutto del suo spirito intraprendente, di notte e di giorno, tra nascondigli ricavati all’ombra di una quercia e lavori interminabili in terre nascoste nella macchia mediterranea. Primo non si tirava indietro, svolgeva il lavoro di contadino con passione; manovrava i buoi con destrezza ed allineava le zolle di terra dietro l’aratro, con quei movimenti goffi e bizzarri riusciva con abilità dove altri si dovevano affidare alle proprie forze. Tutto questo gli dava fiducia e voglia di vivere. Sicurezza psicologica e chiarezza progettuale, proiettata in un futuro che sognava con una famiglia tutta sua, una moglie, dei figli. Insomma sognava uno sviluppo che andasse oltre le sue apparenze. Introdotto in un sociale dove la cultura era soprattutto di rispetto dell’altro, se non altro per timore di Dio e paura del proprio essere mortale.

Primo si presentava con delle credenziali in cui credeva fermamente: “sono l’espressione della volontà di Dio. Lui mi aiuterà se mi darò da fare, se oserò come tutti gli altri, senza pregiudizi e senza problemi, se non quelli legati al modo di affrontare le situazioni adattandole al proprio essere. Questa voglia di vivere era alla base del suo comportamento giovanile: partecipe delle occasioni di feste da chiunque fossero date, pubbliche o private. Bastava sapere che ci fosse una festa di matrimonio che si presentava per festeggiare; farsi una ballata. Presentarsi per quello che era: l’espressione di un essere Superiore con cui c’era poco da concordare. La sua grande forza stava nella fede nel suo Creatore, perché aveva forse sbagliato la struttura, ma non aveva dimenticato di inserire il gene degli affetti, della simpatia, dell’amore verso il prossimo.

Primo amava la vita e vedeva negli altri lo strumento che lo avrebbe aiutato a superare le proprie difficoltà, a realizzare quello che da solo non sarebbe potuto mai riuscire a fare: riscattarsi agli occhi suoi prima che a quelli degli altri. Devo ammettere che il cervello gli funzionava molto più di qualsiasi altro essere di normale costituzione fisica.

Mia madre, non fu colpita dal suo aspetto fisico, ma dal suo fascino, dal suo ideale, dal suo modo di ragionare, dalla sua onestà, dalla sua nobiltà d’animo; come lui anche mia madre era una donna di provata fede: in confidenza mi disse una volta che aveva scelto Primo in un sogno, in mezzo ad altri spasimanti, più belli, più robusti, ma meno affidabili nei valori degli affetti. Così Primo alla fine del 1949 si sposa con Angela che aveva 23 anni, primogenita di 10 figli viventi di famiglia umile e misera, ma ottimista ed allegra. Sarà il suo Angelo per tutta la vita. La lotta per la vita è sempre dura. Primo al cospetto del padre, mio nonno, paralizzato su una sedia da sette anni, in seguito ad un incidente di guerra, riceve una specie di benedizione quando questi gli promette, che se ci sarà qualcosa nell’aldilà, Lui lo userà per seguirlo sempre da vicino, per proteggerlo, per dargli forza.

Primo si commuove e ricorderà sempre quella solenne promessa nel presente quotidiano. 1950 anno di riscossa: la fatalità volle che il suo primogenito nascesse giusto otto giorni dopo la morte del nonno. Gli fu dato il suo nome, come era d’uso a quei tempi. Bel bambino nel fisico e nell’aspetto: assaporare l’orgoglio di padre per Primo fu una cosa immensa, indescrivibile al cospetto di quell’Entità Superiore che aveva riservato tutt’altro al suo aspetto fisico. Fu come aver chiesto scusa e aver adottato il modello giusto quella volta. Primo riempiva le giornate di impegno faticoso, ma produttivo e soddisfacente. Il suo Angelo, mia madre lo seguiva nel lavoro come un ausilio importante e decisivo. Il 1952 fu la mia volta e nacqui così in un giorno importante della Repubblica Italiana. Non che Primo avesse tempo per pensare a queste cose; ma fu importante per me che mi trovavo a festeggiare il mio compleanno in un giorno così importante e significativo.

Il tempo passava e la famiglia si andava componendo fino a raggiungere la nascita del quinto figlio nel 1963. Tutti i figli presentavano una struttura fisica, se non perfetta, senz’altro migliore di quella descritta che identifica Primo. Questi figli sono soddisfazioni che costano enormi sacrifici, stenti quotidiani, con Primo più che mai deciso di portare a completamento un’opera esistenziale enorme.

Ricordo la figura di mio padre con enorme rispetto, anche se nella pratica è stato uno scoglio generazionale difficile da affrontare: il suo stato fisico non è mai entrato nei rapporti quotidiani con la nostra sensibilità di curiosi che si affacciano sul mondo e osservano, distinguono, notano le differenze. Ognuno di noi doveva saper trarre delle conclusioni cognitive che riuscissero a spiegare il mistero che avevamo di fronte. Mia madre ha sempre spiegato la cosa come “estrema volontà del Creatore di tutte le cose terrene, il quale crea l’uomo alla stessa stregua di una pianta di fico, con tanti nodi nelle articolazioni, rami contorti”, eppure nessuno si pone questi problemi di fronte ad un frutto di fico, così buono, così dolce, così nutriente: lo mangia come vera delizia della Natura. Ecco l’essenza della vita per mia madre cos’era veramente. Tra i cinque figli, il mio sviluppo è stato più critico: sarà perché ancora ho memoria del mal di denti e non solo; vedevo che la mia crescita mi dava sensazione di dolore: Dolore alle articolazioni, alla pianta dei piedi, alle dita delle mani. Col trascorrere del tempo somigliavo sempre di più a mio padre, anche se in forma meno accentuata. Ecco la comparsa delle esostosi, prima in forma isolata, poi in forma più diffusa su tutte le articolazioni. La mia indole era quella di coprirle, di non metterle in mostra. La cosa mi creava un certo imbarazzo e sinceramente mi portava ad assumere un comportamento marginale per la mia età. Non mi buttavo facilmente nella mischia, avevo timore della mia fragilità. Questo fattore mi faceva chiudere a riccio, sempre più in un pacifico isolamento. Ero timido e mi mancava il coraggio di presentarmi agli altri con fiducia, sviluppavo in me il convincimento di dovermi misurare con questa realtà, prima o poi, ma come? Rimaneva pur sempre un’incognita da risolvere.

Intanto, già a cinque anni, per opera di un chirurgo che pensava di asportarmi una formazione cistica, mi sottopose ad un primo intervento chirurgico ad un piede, lasciandomi, bontà sua, una cicatrice larga e vistosa un paio di dita, nella zona situata alla base del perone, senza risolvere il problema poiché durante lo sviluppo si riformò uno sperone osseo molto doloroso, in particolare quando calzavo le scarpe alte.

C’è da dire che lo sviluppo riservava sempre delle sorprese, cioè c’era sempre la possibilità che si scoprisse qualche nuova esostosi, magari nella zona omerale, nella zona intercostale, con due punte molto pronunciate sulla prima costola fissa sinistra; ma quelle più pronunciate riguardavano gli arti inferiori: nei pressi delle articolazioni del ginocchio zona tibiale e sul femore. Lo sviluppo delle dita dei piedi risultavano irregolari: alluce più lungo del normale e altre dita arretrate e bloccate nello sviluppo. Diciamo che anch’io non avevo molto da invidiare a mio padre, se non la consapevolezza di essere suo figlio in modo inequivocabile.

Mi riscattavo bene con lo studio e questo mi dava un certo grado di imposizione sugli altri, anche se la mia suscettibilità era troppo forte per esprimere sincerità fino in fondo a coetanei che sentivo troppo superficiali e arroganti. Ho cercato di ricordare sempre gli apprezzamenti di qualche squallido incosciente collega di studio, in particolare un mio omonimo, cioè che portava lo stesso cognome che io porto con orgoglio, senza avere rapporti di parentela per fortuna, che osservando le mie mani, mi disse, testuali parole: “fai schifo con queste mani, mi fai sfigurare”; in effetti aveva delle mani da perfetto pianista, ma la sua mente era evidentemente deforme ed arida di sentimento. Ho sempre provato un senso di pietà per la sua anima presuntuosa e così lontana dal suo Creatore.

Per questo in determinati momenti ho amato ed apprezzato molto più la mia solitudine, lavorando alla formazione di un carattere vincente ed adeguato ai miei tempi di sviluppo.

Lo studio della mappa del mio corpo era diventato il mio hobby preferito perché avevo in mente di intraprendere un piano d’attacco ben preciso per domare la mia malattia. Si trattava di trovare i tempi di intervento e le coincidenze mature. Parliamo del 1969, 9 settembre, coincide con il mio primo intervento chirurgico al palmo della mano sinistra per togliere un’esostosi sviluppatasi tra la falange del dito indice e del medio della grandezza di una noce, che praticamente divaricava le dita come se ci dovesse coesistere un sesto dito. Queste lotte non si fanno e non si vincono da soli, ma si fa fede sempre sulla coincidenza di un ortopedico di classe che prende a cuore il problema e mette le proprie mani al tuo servizio, con coscienza ed alta professionalità, così fu con l’opera del prof. Guido Repaci e la sua equipe dell’Ospedale Maria S.S. Addolorata di Eboli (SA). Mi va di spendere questo nome che per me è stato importante come la scommessa vincente sulla vita.

Gli anni che vanno dai 17 fino ai 27 sono stati difficili e dolorosi con punte di crisi che mi hanno segnato in modo indelebile, per la vita. Ho programmato altri interventi chirurgici con la stessa equipe sopra citata per asportare altre esostosi ostative al movimento degli arti inferiori. Nel 1971 ho rischiato molto, poiché come effetto collaterale traumatico si e verificato lo schiacciamento dell’arteria femorale sinistra con sfaldamento tessutale della stessa, riparata con un bay-pass realizzato in regime di urgenza presso l’Università Chirurgica presso il Policlinico di Napoli. Con un intervento chirurgico successivo ad Eboli, mi hanno asportato quello sperone così pericoloso. Con l’anno 1979, ho programmato un intervento triplo, presso una Clinica di Como, asportando le ultime esostosi che potevano essere da impedimento al movimento.

Nel frattempo avendo intrapreso una vita di lavoro, proprio a Como, mi sono consolidato e sposato dal 1989. Ho due figli, uno di 17 e l’altra di 14 anni con una storia di discendenza ereditaria che si ripete con un filo conduttore che si va sviluppando con la differenza che allo stato attuale va riconsiderato tutto alla luce delle nuove scoperte scientifiche, ma rimane ancora molto da fare, se la soluzione al problema non è ancora venuta. Rimane lo stato d’ansia e la preoccupazione per i figli che si accingono a crescere.

Primo, mio padre vive ancora nel posto dove è nato, l’evoluzione della sua vita è nelle mani del suo Angelo custode che lo affianca ormai da circa 55 anni, vissuti con amore e con amarezza. Infatti, da quando ha lasciato la sua attività, Primo è andato giù fisicamente: ha cominciato con piccoli problemi di spostamento fino al blocco totale delle articolazioni; nel frattempo ha visto ampliarsi la sua famiglia allargata a 13 nipotini. Sono circa 10 anni che vive da infermo, disteso su un letto impedito nell’uso delle braccia e delle gambe, praticamente vive ad opera di sua moglie che lo assiste 24 ore su 24., come un bambino, pronta ad interpretare le sue esigenze, quando anche la parola è di difficile comprensione. Ormai fatica anche a riconoscere le persone che gli stanno intorno. Nonostante ciò, la sua aspettativa di vita ha superato le più rosee previsioni, La sua generazione ha ceduto il passo, E’ rimasto l’ultimo della famiglia ancora in vita, con sofferenze severe, ed un dolore che sembra un’immane punizione più che un regalo di lunga vita. Il suo corpo scheletrico, ormai asciutto, mostra drammaticamente la sua orografia esostosica, che ha saldato praticamente tutte le articolazioni.

Ma la battaglia continua, la lotta contro questa malattia è presente, almeno per i casi che si riescono a raccontare, cioè, laddove la stessa si è manifestata in modo pesante. Si tratta del secondogenito di mia sorella che chiamerò con un nome di fantasia, Mario.

Mario fin da piccolo ha mostrato un fisico gracile e delicato, è stato molto precoce nel manifestare la malattia in vari punti del corpo, in special modo nelle articolazioni delle gambe e delle braccia, con un’azione vistosamente deformante. A ciò si aggiungevano anche altri problemi legati ad un ritardo nello sviluppo del linguaggio. All’età di dodici anni, è stato visitato da un chirurgo ortopedico che non esiterei a definire senza scrupoli, il quale sollecita mia sorella a sottoporre Mario ad un intervento plurimo alle gambe per asportare delle esostosi molto appariscenti alla tibia ed al femore. Qualcosa bisognava fare! Così si decide per quell’intervento. Una complicazione post-operatoria dovuta all’incuria dell’equipe medica, porta Mario a subire altri interventi riparatori che non servono a recuperare il movimento del piede e delle dita. Praticamente un mezzo disastro, all’insegna della mala sanità, con un contorno che non sto qui a raccontare, con strascichi ancora da definire. Mario, dopo aver vissuto questa esperienza come un trauma fino all’eccesso, riprende fiducia e, in un famoso ospedale pediatrico della capitale si sottopone ad un altro intervento per asportare ancora una grossa esostosi dalla spalla, questa volta, superando brillantemente la prova. A Mario è rimasto un concetto isterico della sua esistenza, ma ci auguriamo che strada facendo ritrovi una buona motivazione per apprezzare comunque, le “chance” di vita che potrà avere in futuro.

Mio figlio, ha raggiunto l’età di 17 anni e sta registrando anche lui il disagio della malattia di cui stiamo parlando. Il suo nome di fantasia è Leone perché è un animale che apprezza molto ed è anche il suo segno zodiacale. Lo sviluppo fisico è compatibile con il suo stato ed è sotto sorveglianza, in attesa di giudizio medico per eventuali interventi chirurgici correttivi. Intanto frequenta il primo anno di scuola superiore in un istituto tecnico statale di Como, con l’idea di raggiungere un buon livello di preparazione. Almeno questo rimane nella sua aspirazione. Leone, presenta un carattere gioviale ma anche schivo, vorrebbe uno stile corporeo più raffinato, ma conserva l’orgoglio e la stima di se stesso pur essendo critico e manifestando delle volte la propria insoddisfazione.

Con questi accenni ho voluto testimoniare, come tanti altri rari come me, che la sindrome con cui conviviamo ha bisogno di uno sforzo di ricerca per essere corretta alla radice. Non ho avuto la fortuna di intraprendere quella strada per essere d’aiuto anche per gli altri, ma umilmente mi attendo sempre qualche risposta liberatoria, soprattutto per la gioia delle generazioni future. Grazie per essere stato ospitato dal Vs. forum. Franco.

Nota da ricordare: avevo scritto questi appunti già alla fine del 2004. Ci sono degli aggiornamenti da fare, come ogni volta che si racconta una storia vera, c’è sempre l’allocazione attuale di vari attori in causa. Così, mio padre in un freddo giorno d’inverno del gennaio 2005, lasciò definitivamente questa terra, mettendo fine ad un’atroce sofferenza che aveva accettato con dignità e rassegnazione. I suoi congiunti poterono apprezzare un grande esempio di vita, di valori affettivi profondi. Una consolazione indescrivibile per ognuno che l’aveva conosciuto in vita, mentre presenziava per i suoi funerali. Angela, il suo Angelo custode, si lamentava del fatto che era spirato in quell’attimo in cui lei si era allontanata in cucina per prendere un sorso d’acqua; era andato via così con la delicatezza di chi non voleva arrecare ulteriore dolore per il distacco finale, eterno. Mia madre ci rimase profondamente male e rassegnata commentò: “Adesso, non mi chiami più, mi lasci così sola”. Non dimenticherò quella scena così semplice e piena di significato! Mia madre impiegò qualche tempo a riprendersi: la primavera avanzava e la natura si risvegliava nel suo giardino. I fiori gli sorridevano e lei trovava il modo di distrarsi con delle uscite in compagnia, ma la notte preferiva rimanere sola a casa sua: lei ed i suoi ricordi, la condivisione delle sofferenze e la solitudine. In un sogno premonitore, mio padre la raggiunse vicino al letto e le parlò: “cosa ci stai a fare qui, tutta sola… viene con me che ho bisogno di tè”. Il giorno lo raccontò a chi ebbe occasione di sentirlo, con stupore per entrambi, perché la sua salute era soddisfacente. Ma alla fine del mese di giugno, mia madre si alzò di buon mattino, con in mente i progetti della giornata da realizzare; ad un certo punto disse di aver sentito come un “colpo in testa”, a cui seguì un gran dolore improvviso che le fece cambiare repentinamente programma. Chiese aiuto alle figlie e nipoti; si preoccupò di lavarsi e vestirsi con panni puliti e vestiti stirati, come quelli delle grandi occasioni. Così usò quei minuti di coscienza, prima di entrare in uno stato di perdita di memoria e di identità. Si stava consumando velocemente quel processo irreversibile di “ictus” che l’avrebbe portata di li a poco ad un coma profondo. Dal punto di vista assistenziale vogliamo ricordare che il medico prestò le prime cure pensando ad un normale mal di testa, solo successivamente sentì il dovere di ordinare un soccorso in strutture attrezzate, che si concretizzò nel tardo pomeriggio, dopo aver percorso qualche centinaio di chilometri in ambulanza. E’ stata durissima l’esperienza di questo repentino trapasso che ha lasciato un doppio vuoto, in così poco tempo. Ma viene da pensare che mio padre, dopo aver condiviso una decennale sofferenza con mia madre che l’ha assistito con profonda dedizione, ha avuto una speciale concessione dall’aldilà, per risparmiarle una fine così lunga e sofferta; ma una risoluzione quasi surreale, che tocca solo alle persone beate che hanno saputo cogliere nell’umiltà e nella dedizione i valori dell’amore e della carità umana.

Oggi 30 giugno 2007, ricorre il secondo anniversario dalla morte di mia madre, che ha chiuso un capitolo importante e determinante della mia vita. Ho sempre pensato alla sua immagine come qualcosa che ancora dovrà venire, piuttosto che qualcosa che si perde nel passato della nostra esperienza di esseri viventi, ma solo fino ad un certo punto. Vedo la nobiltà d’animo, profonda e toccante, che i miei genitori hanno saputo esprimere e non riesco ancora a comprenderla in tutti i suoi aspetti. Una cosa è certa: il loro passaggio non ha lasciato indifferenti i figli e che gli è stato vicino in vita, quando ogni gesto di carità e solidarietà umana andava inquadrato in un contesto duro e crudele di sacrificio e di concretezza, a fronte di una forte tendenza a rifuggire le tentazioni dei sentimenti profondi e duraturi capaci di sopravvivere alle avversità della vita.

Tornando all’attualità di come si affrontano i problemi del giorno per giorno, devo confessare che mi sembra di vivere due vite parallele: da un lato mi faccio forte di un’esperienza lunga e circostanziata, per affrontare il caso di mio figlio che convive con il problema della malattia esostosante; dall’altro, mio malgrado, riscontro tutto il disagio nell’affrontare una questione, giudicata troppo complessa agli occhi degli esperti, e questo mi fa rabbia e mi rende triste. Oppure noto una chiara posizione rinunciataria: giusto per non crearsi eccessivi problemi. Immagino: ma la mia immaginazione non può rimanere solo una sensazione personale.

Questo raccontare la propria storia, in fondo è sempre una storia di parte; ma la volontà di chi scrive non è quella di essere obiettivo ed imparziale, se non all’interno di un coinvolgimento emotivo importante e radicato, per giustificare il prevalere dei buoni sentimenti sul mito del “più che perfetto” . In altri termini, per me si tratta di prendere coscienza di se per proiettarsi nel futuro, oltre la propria esistenza, con coraggio e determinazione, in modo che questo slogan calzante ed opportuno del “conto alla rovescia “, abbia veramente un inizio ed anche quel momento “zero” per la partenza verso un nuovo stile di vita, giocato sul fronte della ricerca genetica e della prevenzione, senza negare a nessuno l’affetto più profondo per la vita e la sua conservazione nel tempo attraverso le generazioni passate, presenti e future.

Ecco il primo approccio con la mia storia che ho tentato di comunicare per sintesi, tralasciando aspetti particolari che mi riservo di affrontare successivamente, a giro di orizzonte, nel contesto in cui ci troviamo a vivere ed interagire, il più delle volte, nostro malgrado, alla scoperta di una mutazione “genetica planetaria” di tutto ciò che ci circonda e di ciò che non vediamo, ma che respiriamo a fior di pelle. Di tutto ciò che percepiamo in modo confuso e nuovo che non possiamo e nemmeno vogliamo ignorare.

Alla prossima. Cordialmente. Francesco.

(Nota: L’autore ha autorizzato la pubblicazione del documento, mantenendo, per motivi di riservatezza, le identità modificate)